GIUDA: L’UOMO DELLA COLPA

C’è una figura tra i protagonisti della passione di Cristo che rimane nell’ombra, di cui si sa poco, ma che ha suscitato interesse in tanti artisti e poeti. E’ Giuda Iscariota, a cui i Vangeli dedicano pochi versetti e che diventa il capro espiatorio di una tragedia immane, avendo denunciato per denaro il suo Maestro, il giusto per eccellenza.

Le immagini più conosciute sono quelle, esemplari nella drammaticità, di Dante Alighieri e di Giotto.

Chi ha letto La Divina Commedia sa che il poeta riserva a Giuda la posizione simbolicamente più detestabile. E’ posto nella parte più profonda dell’Inferno, assieme a Bruto e a Cassio, i principali congiurati contro Cesare. Ciascuno sta in una delle tre enormi bocche di Lucifero, l’angelo più bello che per superbia si ribellò a Dio creatore. Sono immersi nel ghiaccio e la furia rabbiosa di Lucifero si riversa sui corpi dei tre traditori, stritolandoli con i denti e graffiandoli fino a scorticarli. A Giuda è riservata la pena maggiore, ha infatti la testa dentro alle fauci insanguinate del demonio e il suo disperato dimenare delle gambe ricorda la pena dei simoniaci, che come lui fecero mercato delle cose sacre, condannati a restare conficcati nel terreno con i piedi lambiti dalle fiamme.

Più umana e profondamente psicologica l’interpretazione di Giotto, che negli affreschi della Cappella Scrovegni dipinge soprattutto un incontro di sguardi: gli occhi di Gesù penetrano Giuda, interrogandolo sul perché di quel bacio pattuito con il nemico, a segno di riconoscimento…

Dentro alla figura di Giuda si intuisce una complessità che molti scrittori e commentatori amano indagare ed interpretare, soprattutto in seguito alle conquiste della moderna psicologia.

Diventa inquietante la domanda da cui muovono tante interpretazioni: era libero Giuda di non tradire?

I Vangeli ufficiali parlano della predizione che Gesù fa durante l’ultima cena: “Uno tra voi mi tradirà” “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello  mi tradirà.”

Giuda aveva seguito Gesù con la speranza che fosse il Messia trionfale, venuto a riscattare un popolo schiacciato e a vincere dei nemici terreni, è la delusione a spingerlo verso una scelta così grave?

Nella stessa cena, davanti ad un Pietro passionale che gli offre la vita, il Maestro gli anticipa che lo avrebbe rinnegato tre volte, prima del canto del gallo. Sarà così, ma dalle lacrime amare di vergogna, in Pietro nascerà un pentimento positivo: fiducioso nel perdono di Gesù, dimostrerà con le scelte successive la sincerità del suo ravvedimento.

Giuda invece rimane solo: soffocato dal peso del tradimento, con i trenta denari che gli bruciano tra le mani, comprende l’assurdità del suo atto e l’impossibilità di fermare gli eventi.

Cerca di rimediare all’errore commesso, nel tempio scaglia le monete contro i sommi sacerdoti: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente.” Ma il suo inutile pentimento si trasforma in disperazione; non riesce a vedere la luce della speranza, la rottura di un’amicizia tanto preziosa lo precipita in un buio distruttivo che riversa su se stesso, decidendo di togliersi la vita.

Quel corpo impiccato, che dondola dall’albero, diventa paradigma di abiezione e di condanna. A lui vengono  paragonati i peggiori traditori, il peso dell’ignominia resterà legato al suo nome.

Gesù, prima di morire, alza gli occhi al Padre e lo supplica di perdonare i suoi carnefici, perché non sanno quello che fanno.

Noi uomini, così fragili e pronti a tanti compromessi, dovremmo fermarci di fronte al destino di chi ha peccato: spetta solo a Dio, nella sua infinita misericordia, misurare il peso delle colpe e gli intimi drammi di un’anima.

 

Lucia